Mamma, atleta, donna

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Un’atleta può essere mamma? E una mamma può fare l’atleta? Sport e maternità sono conciliabili, anche ad alti livelli? 

“Ecco le storie più assurde”

Titola così un vecchio articolo di un quotidiano sportivo italiano, riferendosi a tutte le atlete che hanno gareggiato in gravidanza o poco dopo il parto. Sebbene non siano moltissime rispetto al numero totale di atlete nel mondo, donne che conciliano serenamente la propria maternità col lavoro di sportive ce ne sono, in tutto il mondo. E non sono affatto assurde.

Qualche anno fa, ha fatto il giro del mondo la foto di Elisa di Francisca, ex campionessa di scherma, immortalata mentre allattava il figlioletto durante una pausa degli allenamenti. E sono moltissime le altre donne che si sono prese cura dei propri pargoli durante allenamenti o gare – in ogni cultura e disciplina, dall’India della pallavolo all’hockey canadese, fino alla corsa in montagna sulle Alpi francesi.

Tra tutte le storie di vita vissuta, spiccano alcuni esempi famosi, che hanno contribuito a restituire l’immagine di una donna che, nonostante sia un’atleta di livello pazzesco, non rinuncia ad essere madre. Pensiamo a Serena Williams, una delle tenniste più forti di sempre, che nel 2017 vinse gli Australian Open quando era già incinta di un mesetto della figlia. O Josefa Idem, canoista italiana che vinse il suo bronzo mondiale quando era incinta di dieci settimane.

E non si tratta solo di atlete alle prime settimane di gravidanza. Emily Jackson, campionessa di kayak freestyle, conquistò l’ultima tappa del circuito nel 2019 quando era al nono mese. E Dana Vollmer, nuotatrice olimpionica statunitense, era ancora in acqua al sesto mese di gravidanza.

Spiccano anche le atlete che hanno vinto e stravinto subito dopo la gravidanza. Non solo perché sono tornate a livelli altissimi subito dopo il parto, non solo perché molte hanno dovuto fare i conti con bimbi affamati e montate lattee, ma anche perché vincere una gara sportiva significa essersi allenate a cannone anche prima – ossia, mentre il pancione cresceva, le gambe magari si gonfiavano e gli umori oscillavano. Allyson Felix, una velocista che ha definito i limiti dell’atletica, vinse nel 2019 la medaglia d’oro nella staffetta solo dieci mesi dopo un cesareo. Valentina Vezzali, ma anche la già citata Elisa di Francisca, sono esempi nostrani di impegno e determinazione. Addirittura, Sophie Power, ultramaratoneta che per lavoro corre centinaia di kilometri in montagna, completò l’Ultra-Trail del Monte Bianco col figlio di 3 mesi sulle spalle, allattandolo nelle pause. 

Non chiamatele storie assurde

Ci si stupisce, le si chiama “eroiche” o “supermamme”, quasi che ci fosse un alone di mistico attorno a un’azione – se ci pensiamo bene – piuttosto naturale. Chiaro, qui stiamo parlando di donne che già sono “super” (parliamo d’altronde dell’èlite mondiale). Ma fare attività fisica, continuare la propria occupazione di atleta, esprimere potenziale anche durante il parto e durante l’allattamento non è redenzione, coraggio o stravaganza. È un atto naturale ed evolutivo. Basti pensare alle migliaia di donne che continuano a lavorare, magari a percorrere kilometri a piedi o – in certi luoghi del mondo – a svolgere attività di caccia e raccolta. Durante la gravidanza e il post-parto, infatti, il corpo femminile mostra adattamenti biologici che, oltre a garantire la sopravvivenza della prole, consente un adattamento alla nuova condizione e la continuazione delle azioni necessarie per “sopravvivere”. Ad esempio, aumenta il volume di sangue pompato ad ogni contrazione del cuore, aumenta il volume stesso del sangue e l’assorbimento dell’ossigeno dei tessuti. Aumenta, quindi l’ossigenazione dei tessuti e il ricircolo di nutrienti, che consentono di mantenere prestazioni notevoli nonostante il “peso” ulteriore da portare.

Assurda, invece, è la narrazione attorno alle madri atlete. Media e commentatori tendono a costruire nuove “identità” su queste donne, alternando storie di redenzione a giudizi che mettono in secondo piano, di volta in volta, l’essere madre o l’essere atleta. Reduci di una visione stucchevole, per cui la donna fragile deve fare meno cose possibili durante e dopo la gravidanza, molti articoli si “stupiscono” di queste storie, a loro dire eccezionali – ma, se l’atleta decide di prendersi una pausa, allora la carriera è stata “sacrificata” per via della maternità. Questa visione svantaggia sia le atlete che le donne che non praticano sport agonistico. 

Mamme verso Parigi

Essere atleta e mamma è difficile anche per via delle strutture dedicate. Essendo poche e poco riconosciute, queste donne hanno spesso dovuto arrangiarsi, magari in palazzetti pubblici allattando sulle panchine e tra il pubblico, sperabilmente supportate da staff, compagni ed entourage. Anche a livello economico la situazione non è facile. 

Le cose, lentamente, stanno cambiando. Il CONI ha istituito delle borse dedicate al supporto delle atlete mamme, mentre alle Olimpiadi di Parigi sono state istituite aree appositamente dedicate all’allattamento e alla cura dei figli piccoli. Vi erano anche alcune aree per le famiglie (accreditate) delle atlete, a carico del comitato organizzatore. 

Sono piccoli passi per aiutare donne in una condizione diversa da quella più diffusa – persone singole, che devono occuparsi unicamente di se stesse e della gara. Se l’esperienza verrà via via adottata da altre manifestazioni sportive e diventasse infine prassi, sarà una grande vittoria per tutte le atlete che, nel corso degli anni, hanno dovuto lottare sia contro la mancanza pratica di strutture e quella psicologica di supporto e impegno, ma una grande vittoria anche per lo sport in generale.

Concetti sbagliati ancora diffusi

Pensate a quanto sia ancora “strano” vedere una donna incinta che pratica attività fisica anche fino alla gravidanza (sebbene sia un toccasana, e permetta un recupero motorio ed “estetico” più rapido – ne abbiamo parlato in vari articoli), o quanto ci si stupisca a vedere correre una mamma col passeggino. Sono attività che, man mano, stanno finalmente venendo sdoganate, ma che ancora faticano a trovare una dimensione “normale” nell’immaginario collettivo. 

Chiaramente, non stiamo nemmeno dicendo che lo sport – anche agonistico – debba essere praticato da tutte le puerpere. Ci sono moltissimi fattori che vanno tenuti in considerazione: la gravidanza deve essere tranquilla e senza complicazioni, la condizione medica e la salute devono sempre essere prioritarie, perché nessuna donna deve dimostrare alcunché a nessuno, ma solo stare bene. E poi ci deve essere una sana motivazione da parte della donna: di solito, le atlete sono tali proprio perché hanno tale motivazione – e quindi spingono – ma una non-atleta dovrebbe semplicemente sentirsi bene con se stessa, sapendo che le cose si possono fare, senza pregiudizi.

Bibliografia 

[1] Jackson, T., Bostock, E. L., Hassan, A., Greeves, J. P., Sale, C., & Elliott-Sale, K. J. (2022). The legacy of pregnancy: elite athletes and women in arduous occupations. Exercise and Sport Sciences Reviews, 50(1), 14-24.

[2] Erdener, U., & Budgett, R. (2016). Exercise and pregnancy: focus on advice for the competitive and elite athlete. British journal of sports medicine, 50(10), 567-567.

[3] McGannon, K. R., Curtin, K., Schinke, R. J., & Schweinbenz, A. N. (2012). (De) Constructing Paula Radcliffe: Exploring media representations of elite running, pregnancy and motherhood through cultural sport psychology. Psychology of sport and exercise, 13(6), 820-829.

[4] Hunter, S., & Robson, S. C. (1992). Adaptation of the maternal heart in pregnancy. British heart journal, 68(6), 540.

[5] Hunt, J. (2006). Trying to make a difference: a critical analysis of health care during pregnancy for Aboriginal and Torres Strait Islander women. Australian Aboriginal Studies, (2), 47-56.

[6] Di Jo Guston, “Sport e allattamento: le atlete mamme raccontano la loro esperienza di maternità”, Olympics, 05/08/2023

[7] Trozzi, F., “Le “super-mamme” nello sport: i benefici che la gravidanza apporta nelle atlete”, FondoItalia, 26/05/2024